Cosa sarà l’Italia senza anziani?
Stanno morendo tutti, querce abbattute da una malattia accelerata da avidità e scetticismo. La generazione che si è sollevata dall’angoscia della guerra, i nostri vecchi, non c’è più.
Bare che non si fa in tempo a seppellire. Nella chiesa di Ognissanti, il cimitero monumentale, nelle strade di Borgo Palazzo stanno, in fila, ad aspettare di tornare cenere.
Il fuoco del forno non finisce mai di bruciare, e crepita di ossa e di merletti, di baffi e di ricordi.
In molti hanno sperato in un tubo spinto in gola, ma sono morti nel vuoto insensibile dei sedativi. Per altri l’ambulanza non è mai arrivata. Sono soffocati piano, da polmoni sfiancati, ossigeno rarefatto e solitudine. Alcuni, insieme da una vita, hanno scelto di morire accanto, senza lasciare la loro casa.
Noi che restiamo. Senza poter ricordare un’ultima volta, memorizzare la forma delle loro mani, sfiorarne la pelle. Senza poterli accompagnare e salutare, senza poter accettare.
In una bara inchiodata sta la saggezza della mia terra, coperta da un lenzuolo impregnato di disinfettante.
Chi saremo senza di loro? Saremo un campo in cui ogni vento soffia più feroce, una montagna amputata sulla quale la neve non attacca. Come faremo a ricreare prospettiva, senza appigli per la memoria?
Noi, arbusti e piante nuove che ancora non hanno assorbito abbastanza storia. Le nostre ossa ancora non riconoscono la nebbia della pianura. Lasciamo le briciole sulla tovaglia, certi dell’abbondanza, eppure ricordiamo ciò che è meritevole di essere dimenticato. Non conosciamo le rime incantate della tombola e tantomeno ne sentiamo il bisogno. Abbiamo ormeggi orgogliosamente lenti, a storia ed ecologia, ma non siamo più flessibili di mente e di spirito.
Dottore, La prego, non tolga il respiratore a un anziano che ce la può fare. Un anziano è una nipote che ha bisogno di lui per crescere saggia. È il nostro vocabolario, il registro del nostro paese, la sorgente del ruscello che corre fino alle nostre piazze e poi ancora fino alle nostre campagne. Un’anziana è un nipote che ha bisogno di lei per crescere forte nello spirito. È la nostra scuola, la minestra che scalda l’animo, la promessa che il tempo non porta solo fragilità ma anche la sua accettazione.
I nostri vecchi, che questa malattia ci ruba come l’aria. Quando ne usciremo, dovremo imparare da soli la dedizione che hanno lasciato inciso in ciò che c’è da ricostruire.
Signor Sindaco, La imploro, porti a casa le loro ceneri bruciate altrove. Li seppellisca in un campo dei nostri, nella nostra campagna. I nostri vecchi devono stare a Bergamo, ad Alzano, a Nembro, a Zogno, ad Albino. Dobbiamo portarli a casa loro, se vogliamo continuare a sentire questa terra come casa nostra.
Quando tutto sarà finito, pianteremo spighe di grano e papaveri rossi e querce. Lì, andranno i bambini a giocare nel sole, insegneremo loro il dialetto sulle panchine e ricorderemo quello che è successo nella primavera del 2020. Si chiamerà “il nostro campo di vecchi”. Lì, faremo ricrescere il futuro.
A casa mia, nella città e nella provincia di Bergamo, stiamo assistendo inerti alla perdita di un’intera generazione. Tra dolore e senso di colpa, ci chiediamo come non perderne almeno il significato.
Le parole qui riportate sono un estratto della lettera che ho scritto il 17 marzo al sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, in cui, pur riconoscendo l’urgenza e la gravità del suo ruolo, mi permettevo di offrire una riflessione addolorata sulla perdita della generazione degli anziani e un modo per piangerli e ricordarli.
Bergamo, in Lombardia, è l’epicentro dell’epidemia in Italia, seguito dalle province adiacenti di Brescia e Milano. Nell’impossibilità di calcolare il numero reale delle vittime di SARS-CoV-2, una stima approssimata si può ottenere confrontando il numero totale dei morti a marzo del 2020 con i dati degli anni precedenti. Bergamo, come provincia, ha perso in un mese lo stesso numero di persone che sarebbero presumibilmente morte in sei mesi (5400 a marzo del 2020 e 900 a marzo del 2019). Una tragedia simile è avvenuta nei paesi vicini alla città: per esempio a San Pellegrino, con 42 morti a marzo del 2020 rispetto ai 2 di marzo del 2019; a San Giovanni Bianco, dove sono morte 41 persone a marzo di quest’anno rispetto ai 2 di marzo dell’anno scorso.
In città e in provincia, gli ospedali, gli ambulatori di analisi per i tamponi, e i trasporti d’emergenza sono al collasso da un mese. Eppure la maggior parte dei decessi, circa il 90 percento, è avvenuta a casa, per lento soffocamento, spesso aspettando l’ambulanza. Altri, persone che erano insieme da una vita, hanno invece deciso di non chiamarla l’ambulanza. E aspettare la morte mano nella mano.
I necrologi del giornale locale, di solito di una o due pagine, sono arrivati a occuparne tredici, nonostante non tutti abbiano il privilegio di arrivarci, sulle pagine del giornale. Questi necrologi sono testimonianza della sproporzione dell’età dei deceduti rispetto alla distribuzione demografica: pochi giovani, qualche cinquantenne, un po’ di più nei sessanta, e tanti, tanti settantenni, ottantenni, novantenni. Alcune case di riposo hanno perso la metà dei residenti.
Dal punto di vista medico, è certamente più complesso salvare la vita a persone anziane. La mancanza di risorse, principalmente di respiratori, ha gravato i medici dell’atroce responsabilità di dare priorità ai pazienti con più possibilità di sopravvivere. Nonostante la piena consapevolezza che queste scelte dolorose fossero tanto necessarie quanto tormentate, per gli antropologi le seguenti domande rimangono valide: quali sono i valori culturali che intervengono in tali decisioni? Si prenderebbero decisioni simili in società che valorizzano gli anziani come i principali depositari di conoscenza, saggezza, identità culturale e storia? Questi criteri sono uguali per tutti o ci sono persone che sono in grado di ottenere un trattamento preferenziale facendo leva sul loro potere politico o economico?
I medici, in Italia, oggi sono vittime sacrificali. Non solo molti di loro si sono comportati da eroi, lavorando in condizioni di estremo pericolo e stress, spesso separati a lungo dalle loro famiglie. Troppi di loro, e dei loro famigliari, ne hanno pagato il prezzo più alto. Ma i medici hanno anche denunciato i princìpi capitalisti che negli ultimi vent’anni hanno messo in ginocchio il sistema sanitario pubblico in Lombardia, in particolare il modo in cui tagli agli investimenti venivano convertiti in bonus per gli amministratori, nient’altro che una legale appropriazione di denaro pubblico travestita da meritocrazia.
Gli abitanti del paese da cui è partito il virus, invece, puntano il dito verso le fabbriche locali con filiali a Wuhan, Cina. Dicono che il personale rimpatriato sia stato immediatamente reinserito nelle linee di produzione: mai fermarsi! Quelli erano i tempi in cui non si sapeva che gli asintomatici e le persone guarite rimanevano molto contagiosi, e i comunicati ufficiali erano disinformati e disinformanti. Ma anche quando i casi continuavano a crescere in modo esponenziale, le autorità locali – influenzate dagli stessi industriali – ostacolavano le misure di contenimento raccomandate dall’Istituto Superiore di Sanità.
Non è ancora il momento per un’analisi accurata su cos’è successo ai bergamaschi, gente benestante e orgogliosa del proprio dialetto incomprensibile e dell’etica del lavoro. Per ora, è il dolore e la devastazione che strazia. I cimiteri, le pompe funebri e i crematori non riescono a star dietro ai morti. Le bare si accumulano nelle chiese, non per i funerali, ora proibiti, ma in attesa di essere interrate o cremate. Quando anche le chiese sono risultate affollate di bare, il sindaco ha ottenuto l’aiuto dell’esercito per il trasporto delle salme ai crematori in altre città: a Novara, Trecate, Padova, Ferrara, Bologna, Piacenza, Modena, in quella che già si chiama “la diaspora delle bare di Bergamo”.
Mentre in altre regioni d’Italia ci si consola con musica e battute di spirito, Bergamo è deserta. Invece della sua borghese vitalità, le rimane la gelida solitudine dei troppi feretri.
Solo silenzio assordante nelle sue piazze eleganti. Niente manifesti da morto, che attirerebbero gente e chiacchere. Niente campane a morto, che intristirebbero ancora di più. Dietro ogni porta, dolore, dolore lancinante: tutti abbiamo perso madri, padri, nonni, cari amici, vicini. E senso di colpa: cosa avremmo potuto, cosa avremmo dovuto?
Abbiamo perso la generazione degli anziani, e con loro le tradizioni, la storia, la nostra lingua, il gusto, la conoscenza, la saggezza, forse anche la nostra forza. Proprio adesso che dobbiamo reinventare come aver fiducia uno dell’altro dietro una mascherina, rinegoziare la nostra scala di valori, esprimere affetto e cura senza poterci toccare, s-globalizzarci seppur riconoscendo la nostra interdipendenza, scegliere l’eguaglianza sociale e la competenza invece delle derive autocratiche, proprio adesso, abbiamo perso il bagaglio di esperienza su cui potevamo contare. Sarà onorando i nostri anziani che troveremo il coraggio e la pazienza per ricominciare.